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La più grande prigione: il timore del giudizio altrui

Immagine del redattore: Massimiliano ValenteMassimiliano Valente
Nicolae Vermont - slavi anime 1900
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Negli anni ho maturato una convinzione profonda: la più grande prigione in cui vivono molte persone è la paura di ciò che pensano gli altri. Ho sempre cercato di usare la mia testa per prendere decisioni, senza farmi condizionare dal giudizio altrui, questo mi ha permesso di osservare dall’esterno un meccanismo subdolo ma potente. È un carcere invisibile, fatto non di sbarre fisiche ma di insicurezze e conformismo, in cui ci rinchiudiamo da soli perché temiamo di essere giudicati ed esclusi se mostriamo davvero chi siamo.


Il ridicolo come strumento di controllo sociale


Una delle armi più efficaci di questo sistema è la ridicolizzazione di chi esce fuori dagli schemi. Avete mai notato come reagisce la gente quando qualcuno rompe le regole non scritte del comportamento “normale”? Un individuo che pensa o agisce in modo diverso viene immediatamente etichettato come strano, bizzarro, fuori luogo. Spesso scatta quasi automaticamente la risata di scherno, il sopracciglio alzato, il commento pungente.

È un modo sottile per dire: “Rientra nei ranghi, altrimenti sarai escluso”. Difronte al ridicolo ed al giudizio collettivo, tanti preferiscono fare un passo indietro e ritornare nell’anonimato del gregge, pur di non diventare il bersaglio.


Ciascuno di noi impara presto che esiste un’area senza problemi– una zona di sicurezza invisibile entro cui ci si sente normali ed accettati.

In quest’area ristretta ci atteniamo alle aspettative sociali: vestiamo, parliamo e viviamo come si suppone sia giusto. Finché restiamo all’interno di queste norme, nessuno ci infastidisce , anzi troviamo approvazione e conferme. Qui tutto fila liscio perché stiamo “al gioco” seguendo le regole dettate dalla maggioranza (o da chi per essa).


Chi decide di avventurarsi fuori da quest’area sicura ne paga subito il prezzo.

Appena metti un piede oltre la linea del conformismo, la massa reagisce compatta e ti punta il dito contro, cercando di respingerti indietro. La persona che esce dal coro viene immediatamente attaccata dalla massa, trasformata inconsapevolmente in una sorta di guardiano del sistema. Gli altri, spesso senza neanche rendersene conto, agiscono come difensori delle convenzioni: correggono, deridono, isolano il “deviatore” finché questi non torna nei ranghi oppure viene escluso del tutto. Questo comportamento collettivo crea un potentissimo controllo sociale: la paura del ridicolo e dell’emarginazione diventa così forte che pochi osano davvero sfidare le opinioni comuni.


Pochi dettano le regole, molti le seguono


È inquietante rendersi conto di come pochi riescano a controllare molti semplicemente dettando le norme della società: cosa è considerato giusto o sbagliato, morale o immorale, buono o cattivo. Fin da bambini ci vengono inculcati determinati valori e comportamenti “standard”, spesso senza spiegarci davvero perché siano giusti o sbagliati. Cresciamo interiorizzando queste regole non scritte, credendo che siano verità assolute, quando in realtà sono costrutti sociali decisi da qualcuno. Basti pensare a come cambiano le morali da un’epoca all’altra o da una cultura all’altra: ciò che in un contesto è normale, in un altro è tabù. Evidentemente non c’è nulla di oggettivo in molte norme — sono convenzioni create e sostenute da chi ha voce in capitolo nella società.


Ma chi stabilisce davvero il confine di ciò che è “normale”? In ogni epoca c’è sempre stata una minoranza influente – leader politici, élite economiche, istituzioni religiose, media – capace d’indirizzare il pensiero collettivo. Sono loro a decidere il copione, ad indicare qual è la strada “giusta” e quali invece sono sbagliate. Questi pochi al comando dettano ciò che la maggioranza finisce per accettare come verità.

Ed il bello (od il brutto) è che una volta stabilite le regole del gioco, non serve nemmeno molta forza per mantenerle: la pressione sociale farà il lavoro, perché come abbiamo visto saranno gli stessi individui a controllarsi a vicenda. In questo modo una piccola minoranza può controllare la massa, senza dover ricorrere continuamente alla forza ed alla censura aperta, ma semplicemente programmando a monte ciò che la società ritiene accettabile.


Dietro le quinte: la metafora degli Illuminati


C’è chi usa la parola “Illuminati” per dare un nome a questo potere invisibile che costruisce e modella le strutture di controllo sociale. Non intendo tirare in ballo teorie cospirazioniste estreme di società segrete che governano il mondo da un bunker sotterraneo; qui Illuminati è una metafora, un simbolo utile a rappresentare l’idea di un’élite nascosta che tira i fili del pensiero collettivo. È come immaginare che da qualche parte, dietro le quinte, esista un regista silenzioso che ha scritto il copione che tutti noi recitiamo. Questo “regista” – chiamiamolo l’illuminato per comodità – egli ha definito le regole del sistema ed ha costruito la gabbia mentale in cui la società si muove.


Pensiamoci: il fatto stesso che la maggioranza delle persone segua certe norme senza metterle in dubbio, e che reagisca ferocemente contro chi le mette in discussione, fa il gioco di un potere centrale invisibile. È nell’interesse di quel potere che tutti accettino le stesse verità preconfezionate e che isolino chi prova a ragionare con la propria testa. In passato poteva essere la Chiesa o lo Stato autoritario a decidere il pensiero unico; oggi l’immagine è più sfumata, il controllo meno visibile, ma possiamo comunque immaginarlo come un’entità dall’alto – gli “Illuminati” appunto – che impostano il sistema operativo delle nostre convinzioni sociali. Che gli Illuminati esistano o no come organizzazione reale poco importa qui: ciò che conta è capire che esistono meccanismi di potere che orientano il nostro modo di pensare senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Riconoscerlo significa iniziare a vedere le sbarre di questa prigione mentale.


Le barriere invisibili alla libertà individuale


Viene naturale chiedersi: ma la nostra libertà non è garantita dalle leggi? In teoria sì – viviamo in società libere, con diritti sanciti sulla carta – ma il vero limite della libertà individuale non è imposto dalle leggi ufficiali. Piuttosto, esso viene imposto dalla società stessa attraverso la pressione dei nostri pari. È come se al di là delle leggi scritte esistesse un muro fatto di sguardi giudicanti, risatine e pettegolezzi, contro cui andiamo a sbattere ogni volta che proviamo ad allontanarci dal gruppo. Quante volte nella vita quotidiana evitiamo di fare o dire qualcosa non perché illegale, ma per il semplice timore di “cosa penseranno gli altri”? Ecco, quella è la prigione reale in cui viviamo.


In pratica c’è un esercito di persone comuni che, senza nemmeno rendersene conto, s’impongono a vicenda queste norme sociali e tengono tutti in riga. Il controllo non arriva quindi da un poliziotto o da un giudice con un codice in mano, ma dal vicino di casa, dal collega, dall’amico e perfino da noi stessi quando interiorizziamo la voce del “si deve fare così”. Diventiamo sorveglianti e prigionieri al tempo stesso: controlliamo gli altri e nello stesso tempo censuriamo noi stessi per paura di essere giudicati. È una libertà vigilata quella in cui viviamo – vigilata non tanto dallo Stato, quanto dal condizionamento sociale reciproco. Questo clima crea barriere invisibili ben più forti di molte leggi: non c’è bisogno di una norma che vieti esplicitamente un comportamento, se tutti noi apprendiamo a vietarcelo da soli pur di evitare lo stigma.


Riflessioni : liberare la mente dal giudizio


Alla luce di tutto questo, diventa chiaro quanto sia preziosa e rivoluzionaria la libertà di pensiero autentica. Significa avere il coraggio di uscire da questa prigione mentale, di mettere in discussione ciò che “tutti pensano” e seguire la propria strada usando la propria testa. Non è facile, lo so bene: andare controcorrente comporta rischi e solitudine momentanea, e quella vocina interiore che teme il giudizio altrui non si zittisce dall’oggi al domani. Ma credo fermamente che ne valga la pena, perché fuori da quella gabbia c’è la vera aria di libertà.

Solo quando smettiamo di vivere in funzione delle aspettative degli altri iniziamo davvero a vivere per noi stessi, in coerenza con i nostri valori e desideri profondi.



Personalmente, ho sempre cercato di farmi guidare dalla mia coscienza e dal mio ragionamento, anche quando questo significava essere in disaccordo con la maggioranza. Questa indipendenza di pensiero mi ha regalato una sorta di immunità verso il ridicolo: se so di agire secondo i miei principi, il sarcasmo o la disapprovazione altrui non mi scalfiscono .

Mi piacerebbe trasmettere a tutti voi questa consapevolezza:


il giudizio degli altri è potente solo se noi gli permettiamo d’influenzarci.


La chiave per evadere da questa prigione senza sbarre è rendersi conto che essa esiste, osservarla dall’esterno e poi scegliere deliberatamente di non lasciarsi comandare dalla paura del giudizio.


In sintesi , credo che ognuno di noi debba farsi una domanda sincera: sto vivendo la vita che voglio davvero, o quella che gli altri si aspettano da me? Prendere consapevolezza di questa dinamica è il primo passo per riappropriarsi della propria libertà interiore. Soltanto mettendo in dubbio le “verità” imposte ed allargando i confini dell’area senza problemi possiamo crescere come individui liberi ed autentici.

E tu, ti sei mai chiesto quanta parte del tuo comportamento e delle tue scelte sia veramente frutto di un pensiero autonomo, e quanta invece dettata dal timore del giudizio altrui?


"Tempo fa, una persona mi ha detto una frase che, da quel momento porto sempre con me:

«Quello che gli altri pensano della tua persona, dice molto su di loro ma niente su di te.»

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