Umberto Cavina: il Cuoco viaggiatore che Insegna il valore del territorio e della Tradizione
- Massimiliano Valente
- 6 giu
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 7 giu

Di Max Valente
Ci sono chef e poi ci sono figure come Umberto Cavina. Parliamo di un professionista che ha attraversato il mondo, dalle luci di Los Angeles all’energia cosmopolita di Londra ed Istanbul, mantenendo però sempre forte il legame con la sua terra d’origine, l’Emilia Romagna. Incontrare ed intervistare Umberto ( che per me è anche un caro amico di lungo corso ) significa entrare in un universo culinario dove tecnica, tradizione ed imprenditoria si fondono armoniosamente.
La mia esperienza nel mondo alberghiero mi permette di cogliere immediatamente i dettagli di un percorso professionale fuori dal comune .
Ho subito chiesto allo chef cosa significhi adattare il linguaggio gastronomico nei vari continenti.
La sua risposta è stata :
Un viaggio di sapori e conoscenze: «All’estero impari tecniche nuove, conosci ingredienti che non esistono in Italia, ma è proprio questa diversità che ti permette poi di rientrare con una visione unica». Cavina sottolinea con passione che negli anni 2000 le sue esperienze estere gli permisero di anticipare mode gastronomiche ancora lontane dalla provincia italiana.
Parlando della sua carriera, che si dipana fra ruoli di chef, patron, consulente e manager, gli chiedo quale di questi lo abbia cambiato maggiormente.
Con pragmatismo afferma: «Il ruolo di manager mi ha sfidato profondamente. Dovevo decidere in fretta e spesso da solo. È un mestiere veloce, e devi essere pronto».
Oggi, , devi avere conoscenze approfondite, padroneggiare formule chimiche, tecniche precise, e soprattutto rispettare profondamente le materie prime».
Proseguendo la conversazione con Umberto emergono dettagli preziosi e riflessioni profonde sulla sua visione gastronomica, arricchita da esperienze che vanno oltre i confini italiani , esplorando ulteriormente il percorso perofessiinsle dello chef : scopriamo , la sua filosofia ed i consigli che regala a chi vuole intraprendere questa carriera .
Cosa significa per te essere chef nel 2025? Cosa è cambiato rispetto agli anni ’90, quando hai iniziato?
Umberto Cavina risponde con passione e lucidità: «Nel 2025 essere chef significa essere anche imprenditore. È cambiato tutto rispetto agli anni ’90, quando il nostro non era neanche considerato un mestiere vero e proprio. Ricordo ancora quando ai miei tempi si doveva scegliere la scuola superiore: chi non era particolarmente brillante veniva indirizzato all’ alberghiero come ripiego : oggi invece la nostra formazione prevede un percorso serio di tre anni che talvolta vale più di tre lauree.
È necessario però avere una guida, un mentore che insegni con serietà e rigore la parte pratica ».
Hai lavorato con grandi nomi come Marchesi, Angelini e Cavallini. Cosa ti hanno lasciato e cosa invece hai scelto di non ereditare?
«Mi hanno lasciato tutto, davvero tutto. Sono ciò che sono oggi come persona e come professionista grazie anche a loro. Tuttavia, ho scelto di non ereditare certe sfumature caratteriali che non sentivo mie, pur rispettando immensamente questi grandi maestri».
Qual è, secondo te, la prossima vera frontiera della ristorazione?
Cavina è incisivo: «La vera frontiera sarà una cucina basata sulla materia prima, sulla semplicità ed autenticità. Nel mondo di oggi, dove ogni piatto è pensato per essere fotografato prima che assaggiato, Umberto Cavina ci ricorda una cosa semplice e potente: la vera ristorazione non ha bisogno di maschere.
«Non credo più nella spettacolarizzazione eccessiva. La vera frontiera è una cucina autentica, essenziale, basata sulla materia prima», afferma. Basta plastica, basta forme senza sostanza. La cucina deve tornare ad essere un atto di verità, non un esercizio di marketing.
In un’epoca dove il “fine dining” rischia spesso di trasformarsi in un circo estetico, Cavina ci riconduce all’origine: il prodotto, la tecnica rispettosa, la cultura. Non è una critica, è un invito a riflettere. A scegliere la qualità reale, e non quella costruita.
Questa riflessione, che può sembrare controcorrente, è in realtà un ritorno all’essenziale.
Quando progetti un’esperienza gastronomica da zero, da dove inizi?
«Tutto inizia sempre dalla scelta della materia prima, poi dalla sua valorizzazione. Mi piace ricordare il grande chef Michel Bras, che diceva: un bravo cuoco sa abbinare due ingredienti, un grande cuoco ne abbina tre. Il segreto sta proprio nel sapere esaltare la semplicità con precisione e senza fronzoli».
Quanto conta il tempo nella tua visione della cucina?
Conta moltissimo. La mia carriera la vedo come una goccia che scava la pietra: lenta, costante, precisa. Ci vuole tempo per maturare le idee, per assimilare davvero le tecniche e comprendere a fondo le materie prime».
Cosa dici oggi ai giovani che vogliono fare gli chef? Come devono approcciare questo mestiere?
Qui Cavina mostra il suo carattere diretto e schietto: «Consiglio ai giovani di guardare meno MasterChef e di studiare sul serio. Bisogna essere attenti, rispettosi verso chi insegna e partire sempre dalle basi della cucina tradizionale. Solo così si può arrivare ad una conoscenza evoluta . Purtroppo vedo troppa arroganza e superficialità oggi ; invece occorre umiltà e dedizione assoluta .
Qual è il tuo menù ideale, quello che ti rappresenta davvero?
«La cucina di campagna, semplice e genuina. Ho riscoperto negli anni il piacere autentico di valorizzare i sapori naturali, di campagna appunto, dove protagonista assoluto è il prodotto e non la tecnica fine a sé stessa».
C’è un ristorante nel mondo dove torneresti a cucinare anche solo per una sera?
«Assolutamente al Rex di Los Angeles, perché è stato il luogo della mia prima vera apertura mentale sulla cucina internazionale. È stata una tappa fondamentale per tutto quello che ho fatto dopo».
Qual è il ruolo che più ti ha messo alla prova e quello che ti ha cambiato maggiormente?
«Senza dubbio il ruolo di manager. Venendo da una formazione puramente culinaria, dover prendere decisioni rapide e spesso da solo mi ha profondamente cambiato. Questo mestiere è veloce, non lascia spazio ad indecisioni. Essere manager mi ha insegnato il valore del tempo e della responsabilità».
L’ultima esperienza a Fisher Island, Miami
Infine, Cavina racconta l’ultima straordinaria esperienza professionale: «Mai avrei pensato che a 54 anni potesse capitarmi una cosa così meravigliosa. Fisher Island, a Miami, è stato un ritorno alla freschezza ed all’innovazione.
Ho lavorato alla riapertura del ristorante Porto Cervo, confrontandomi con veri talenti , chef e manager preparati. Mi sono sentito ringiovanito ed ho aggiornato tecniche che non usavo da decenni. Questo luogo esclusivo, abitato da circa 800 milionari con otto ristoranti di alto livello, mi ha ridato entusiasmo e nuova energia».
Che cosa ci lascia Umberto Cavina?
Umberto Cavina lascia un messaggio chiaro: la cucina non è soltanto tecnica, è rispetto per il territorio, passione autentica, umiltà, e la continua voglia d’imparare , Umberto insegna che essere grandi significa prima di tutto rispettare il mestiere e chi lo insegna.
È stato un piacere scambiare queste battute con lo chef ( che in realtà ama definirsi cuoco contadino ) . Ascoltandolo, credo che tanti addetti alla ristorazione possano riconoscersi nelle sue riflessioni : c’è dentro quella calma determinazione che si conquista solo dopo una lunga ed intensa carriera .
Ci ha comunicato un messaggio semplice ma profondo, come certe verità che assimili solo con il tempo.
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Grazie per l’attenzione , alla prossima intervista !
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